Disegni da leggere

Ilaria Bollati

Lo scopo del disegno è far sì che le persone avvertano che c’è qualcos’altro al di là della percezione. Essenzialmente è ciò con cui sto giocando: il viaggio fra la percezione e la comprensione. La percezione ha anche a che fare con il contesto. Poiché si tratta di una vignetta, le persone che vedono un disegno sul New Yorker penseranno automaticamente che faccia ridere. Se lo vedessero in un museo penserebbero che sia arte, e se lo trovassero in un biscotto della fortuna penserebbero a una profezia”. E se i disegni fossero collocati in una biblioteca cosa accadrebbe? Come li vedremmo?
Steinberg considerava le mostre un “grosso affare pubblico” lontano dalla “natura clandestina” del suo lavoro. Sconfinava spesso con la sua pratica, quasi fosse nomade, tra campi e zone artistiche differenti, ma non amava particolarmente visitare i musei. Sul finire degli anni ’60 il critico d’arte Pierre Schneider invitò undici celebri artisti dell’epoca ad accompagnarlo, uno per volta, attraverso le sontuose sale del Louvre e ne registrò i commenti. Steinberg, in quell’occasione, muovendosi dentro il museo parigino lamentava un’esperienza eccessiva. “I soffitti affrescati, i rilievi dorati, i marmi della pavimentazione, i busti, gli eruditi”, qualsiasi cosa incontrasse gli chiedeva di essere guardata; senza gerarchia di attenzione, quasi soffocandolo. Tutto in quel contesto era messaggio: gli ambienti, gli oggetti, i profumi, gli odori. Sì, gli odori. Sosteneva che in Europa i musei sapevano “di prefettura, di scuola elementare”, in America invece odoravano “di banche”. È forse destino che, a Milano, la sua collezione venga accolta e custodita da una biblioteca e non da un museo? Pensiamo alle sue amicizie. In vita, tendeva spesso a stringere legami con chi possedeva dimestichezza con la parola e con la scrittura. Con Aldo Buzzi condivideva un rapporto prezioso, duraturo, fatto di fertili scambi. Amava dialogare in compagnia di Saul Bellow, per giocare con i nonsense e trovarsi coinvolto in sviluppi di conversazione inattesi. Leggeva e rileggeva a più riprese James Joyce. Affascinava lo storico dell’arte Ernst Gombrich, il critico Roland Barthes e lo scrittore Italo Calvino, comparendo in diversi loro testi. Ma non solo: tra le sue opere, Steinberg realizzava libri di legno e, in alcune lettere all’amico Aldo, li annoverava tra i libri letti, quasi come se l’atto materiale di crearli si tramutasse automaticamente nella loro lettura. Si definiva un romanziere mancato. E raccontava di “trova[rsi] meglio, in genere, con gli scrittori che coi pittori”. Chissà che anche i suoi disegni ora non si trovino meglio con i libri che con i quadri.

Di certo, i punti di contatto tra le collezioni contenute nella Biblioteca Nazionale Braidense e i suoi disegni non mancano. Pensiamo allo studiolo di Umberto Eco, di recente acquisizione. Per Eco i libri sono macchine. Macchine per produrre interpretazioni. Macchine per produrre identità. Una biblioteca può essere percorsa in molteplici modi e apre a infiniti mondi, così come per Steinberg il bello di un’opera d’arte risiede nella possibilità di essere interpretata. Non importa se la risposta a cui arriva sia esatta o meno. Non esiste giusto o sbagliato. È l’esercizio interpretativo che “salva”, che porta a trovare nuovi significati. I suoi disegni sembrano sempre provocare il pensiero di chi guarda. Invitano a un’esplorazione totalmente soggettiva. Sono “esercizio di attenzione”. Di fronte a essi, ognuno è chiamato a trovare la propria chiave di lettura.
Bisogna però creare l’occasione e progettare il contesto affinché ciò avvenga. Esporre i disegni di Steinberg nella Biblioteca Nazionale Braidense non è un’operazione immediata. Sottende una serie di scelte, espositive e no, delicate e complesse al tempo stesso. La tipologia e le dimensioni delle opere, ben lontane da quelle dei libri, esulano dalla prassi a cui la Biblioteca è storicamente abituata e richiedono uno sforzo progettuale differente. È così che in Sala Maria Teresa le tende sono sostituite e alcune teche vengono riprogettate per garantire nuovi ed elevati standard conservativi; la struttura metallica dei pannelli verticali, disegnata originariamente da Gae Aulenti, viene rivisitata al fine di ospitare le opere di maggiori dimensioni. Quest’ultima è avvolta in una rete. Rimanda al linguaggio semiotico dei depositi trasparenti e visibili, già presenti nella attigua Pinacoteca di Brera, secondo cui le opere della collezione devono restare il più possibile accessibili.
Non solo. Esporre le opere di Steinberg introduce l’occasione di sottolineare la connessione fisica tra la Biblioteca Nazionale Braidense e la vicina Pinacoteca di Brera, naturalmente legate, o collegate, quasi fossero una coppia di gemelli non identici. Per la prima volta, grazie all’apertura del varco vetrato che le connette, l’utente può decidere dove avviare la propria visita, accedendo indistintamente sia dalla biblioteca sia dal museo. L’allestimento è progettato per accogliere una duplice possibilità di fruizione e lettura, in un percorso aperto e fluido, senza un inizio o una conclusione obbligata.
I disegni esposti sono infine selezionati in numero contenuto, affinché le persone possano soffermarsi su di essi e instaurare un rapporto intimo e raccolto. D’altronde, in questo scambio rinnovato tra il mondo della biblioteca e quello del museo, l’equilibro è sottile. L’intento profondo è indurre le persone a leggere i disegni quasi fossero libri e non a guardare velocemente i libri come a volte facciamo con i quadri. La vera sfida è invitare le persone a uscire dai binari, decifrando messaggi profondi.
“Passiamo la maggior parte della nostra vita a interpretare messaggi chiari, preconfezionati (la posta, i giornali, i segnali rossi e quelli verdi, etc.). Gli altri, per essere decifrati, richiedono uno sforzo che preferiamo evitare. Ma è proprio questo sforzo che arricchisce la nostra vita, che la riempie di gioia, che la rende per così dire inesauribile”.