Vita con me stesso: mitologia personale

Francesca Pellicciari

Si può dire che la collezione di centodiciotto opere della Biblioteca Nazionale Braidense, recente dono della Fondazione Saul Steinberg, ripercorra, in un arco temporale che parte dalla seconda metà degli anni ’30 e arriva alla prima metà degli anni ’90, quasi tutta la carriera artistica di Saul Steinberg.

E con la raccolta, già presente in Biblioteca, dei giornali Bertoldo e Il Settebello un cerchio si chiude. Mancava, infatti, a completarne a ritroso l’evoluzione artistica, una parte spesso omessa della sua opera: quei disegni giovanili, in forma di vignette satiriche, che introducono Steinberg, ventiduenne studente di architettura al Politecnico di Milano, al mondo delle riviste umoristiche italiane, allora in piena evoluzione.
Un tassello trascurato ma necessario per introdurre un artista che, nato in Romania nel 1914 e divenuto uno dei più importanti disegnatori americani del XX secolo, deve al suo passaggio in Italia, durato otto anni – dal 1933 al 1941 – la radice, seppur acerba, di quella capacità unica di muoversi in territori inesplorati, di usare lo humor per “farsi perdonare” la serietà di certi temi, unita a un’eccezionale propensione per il disegno, così sintetizzata da Aldo Buzzi in maniera fulminante su un Domus del 1946: “Steinberg è nato per disegnare come Fred Astaire è nato per ballare”.
La varietà delle tecniche e dei soggetti del fondo oggi riunito in Biblioteca, inoltre, testimonia i diversi ambiti lavorativi in cui Steinberg si muoveva d’abitudine – dall’opera fatta per le gallerie d’arte a quella destinata a essere riprodotta nelle riviste, dalle collaborazioni con gli architetti fino alle opere più intime e personali – e l’ambiguità, di cui spesso si compiaceva, che lo ha sempre contraddistinto come artista. “Mi ha influenzato l’intera storia dell’arte: pitture egiziane, disegni nei gabi- netti, arte primitiva e folle. Seurat, gli scarabocchi dei bambini, il ricamo, Paul Klee”.

Oltre a ciò – e verrebbe quasi da dire, sopra a tutto – un costante richiamo autobiografico caratterizza molte opere della donazione, aiutandoci a cogliere svariate sfumature di quel che si cela dietro l’immagine rarefatta dello Steinberg artista.
In primis, un disegno della fine degli anni ’80 in cui Steinberg, riprendendo una fotografia d’epoca in cui compare assieme ad altri familiari, ritrae sé stesso bambino. Ma la copia non è pedissequa, come non lo sono mai, d’altronde, le sue imitazioni: Steinberg sceglie una delle figure, la domesticari - conoscibile dai piedi scalzi – la estrapola dal gruppo, la sposta dalla sua posizione originaria e la pone accanto a sé, eliminando le altre figure, proprio come in altri disegni tratti da questa fotografia, in ciascuno dei quali Steinberg compie la medesima operazione: alterna al suo fianco uno o l’altro dei personaggi presenti nell’immagine. Una modifica alla memoria che solo il tratto del disegno può attuare, ricreando da una stessa istantanea visioni o ricordi differenti.
Un altro tributo ai trascorsi milanesi è poi al centro di due tra le opere più celebri della collezione, entrambe del 1970: Milano 1938 e Via Ampere 1936, pubblicate il 7 ottobre 1974 sul New Yorker, nel portfolio “Italy–1938”. Anche in questo caso è la memoria, non esatta nei dettagli ma veritiera nell’essenza, a suggerire a Steinberg come disegnare una particolare architettura (il Palazzo di Giustizia) o un angolo di un certo quartiere (Città degli Studi); un’operazione già compiuta anni prima – nel 1949 – ma con maggiore dose di humor, quando rappresenta l’Arsenale di Venezia solo attraverso i suoi leoni ateniesi, volutamente ingranditi rispetto agli sparuti personaggi che li osservano, come a sottolineare il fatto che un luogo può essere riconoscibile anche per sottrazione dei suoi elementi architettonici.
Scenari italiani – o comunque del vecchio continente – sono anche quelli realizzati nel 1942 a Santo Domingo, in attesa del visto per gli Stati Uniti, e poi confluiti nella sua prima mostra americana “Drawings in Color by Steinberg. Paintings by Nivola” nell’aprile del 1943. È uno Steinberg, quello di questi lavori, che, probabilmente, non ha ancora avuto il modo di cambiare il soggetto delle sue opere e sviluppare uno stile diverso da quello ancora evocativo del pittorico italiano novecentesco: è uno Steinberg ancora lontano dalla “scoperta dell’America” e che è commovente pensare, arrivato da appena dieci mesi negli Stati Uniti, non senza difficoltà, dedito a esporre opere dalle quali ancora trasudano i toni sanguigni della nostalgia verso un paese da cui è suo malgrado dolorosamente fuggito.

Tra i lavori generosamente donati alla Biblioteca Nazionale Braidense, merita attenzione il disegno Hotel Room in Carpi, frutto di un viaggio realmente accaduto nel 1951 e realizzato nello stesso anno. Il disegno e gli schizzi da cui il disegno è tratto, conservati presso la Beinecke Library di Yale, sono una documentazione molto interessante e rara di come Steinberg disegnava “dal vero”. Taccuini di schizzi di viaggio sono molto frequenti in questo periodo (e si faranno pian piano più radi negli anni successivi, fino a scomparire del tutto), e testimoniano quanto Steinberg si portasse ancora appresso il bagaglio di lezioni appreso al Politecnico di Milano, compresa una passione per il disegno d’architettura – memore forse dei carnet di viaggio di Le Corbusier. Paesaggi, piazze, scorci, frammenti di strade, dettagli di mobili, indicazioni sui colori, annotazioni di spese, raramente trasformati in un disegno finito. Ma il ricordo di questo soggiorno a Carpi e forse l’incanto subito da questo luogo rimangono talmente impressi in Steinberg che una volta tornato a casa prende un grande foglio da disegno e vi ricompone tutti i dettagli. Aggiungendo anche l’annotazione dei conti dell’albergo, “scrivendolo” sulla porta della camera (una libertà che solo Steinberg poteva prendersi).
Ne scrive anche al suo amico Aldo Buzzi: “Dal treno su cui tu continuavi il viaggio per Milano io sono sceso a Parma dove ho preso un trenino per Carpi che è – come l’aspettavo – molto bella, fatta per giganti, una piazza grande come San Marco, completa coi portici all’infinito, duomo, castello, Opera, senza contare l’Albergo del Turco, camera con soffitto dipinto, bandiera sopra il letto, il letto col Vesuvio dipinto su, tagliatelle, etc”.
Ma – ed è qui che si comprende ancora più in profondità il metodo, l’approccio di Steinberg rispetto all’opera d’arte come potenziale rappresentazione totale dell’esperienza, della quale si possono comporre infinite variazioni, facendo ricorso a tutto, stili e tecniche, secondo l’estro e lo scopo – siccome non si butta via niente e Steinberg, forse per istinto e forse per progetto, conserva ogni tipo di documento cartaceo per poi riutilizzarlo al momento più opportuno, quattordici anni dopo recupera la ricevuta dell’albergo e la colloca al centro di una nuova opera, quasi un collage cubista o alla Schwitters.
E ancora: in tutt’altra modalità dal vero si pone quando ritrae amici e parenti nella sua casa a Long Island negli anni ’70 e ’80. I disegni, a matita colorata, poi pubblicati in una sofisticata edizione a tiratura limitata intitolata Dal Vero, sono realizzati dalla mano di chi non ha più tentennamenti, e infatti, nella loro algida e delicata bellezza, si somigliano tutti.
Ma, come detto, molti sarebbero ancora i temi da indagare, molte le storie che si celano dietro ogni opera della collezione. Abbiamo cercato, in questo catalogo, di lasciare la parola a Steinberg. Nella ricerca di un ordine che non fosse prettamente cronologico, infatti, ci sono venuti in aiuto alcuni testi di Steinberg, alcuni dei quali inediti, che il suo curatore, Aldo Buzzi, aveva tenuto in serbo in attesa che un giorno venissero pubblicati, e che sono stati donati alla Fondazione Saul Steinberg nel 2007: “Un mucchio di scritti alla rinfusa, quasi buttati giù da un camion, come dice il loro autore a proposito di certa architettura americana […]”.
Questi testi, frutto di interviste fatte da Buzzi a Steinberg nell’estate del ’74 e nell’autunno del ’77, scartati dalla pubblicazione Riflessi e ombre (Adelphi, 2001), sembravano particolarmente adatti ad affiancare le opere della collezione in un percorso narrativo che potesse fornire suggerimenti più che spiegazioni, mostrare le doti nascoste dello Steinberg scrittore a fianco di quelle meglio note dello Steinberg disegnatore, evitando ogni profondismo, come ebbe a dire Roberto Calasso recensendo le bozze del libro nel 1978. Il volume, nella sua prima forma finita, avrebbe dovuto intitolarsi Vita con me stesso: quale titolo migliore per un artista la cui ricerca ha attraversato di continuo la propria storia facendone una grande autobiografia?